Italia e criptovalute: che pasticcio la tassazione al 33%
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A partire dal 2026, in Italia entrerà in vigore una nuova tassazione sulle plusvalenze da criptovalute pari al 33%, un’aliquota che rischia di posizionare le crypto in una categoria fiscale meno vantaggiosa rispettoa tutti gli altri strumenti finanziari.
Sarebbe però potuta andare anche peggio visto che la prima proposta presentata dal governo prevedeva un aumento del 42% già a partire dal 2025, decisione poi rientrata e mediata con una soluzione ambigua che spalma l’aumento in tre anni e lo riduce al 33%.
Per quest’anno l’aliquota rimane al 26% e così anche il prossimo anno, cade però la franchigia per le plusvalenze fino a 2.000 euro.
Eppure, chi deciderà di investire in ETF Spot su Bitcoin o in azioni di aziende come MicroStrategy che offrono un’esposizione indiretta, pagherà anche nel 2026 solo il 26%. Una differenza che solleva dubbi e apre il dibattito su coerenza e strategia fiscale nel settore degli investimenti crypto.
L’aliquota del 33% rappresenta una delle più alte applicate in Italia e riflette una visione delle criptovalute come asset digitale altamente speculativo e quindi da penalizzare.
A differenza degli strumenti regolamentati, le crypto non sono soggette alla supervisione di enti finanziari tradizionali e vengono percepite come un investimento più rischioso, giustificando – secondo i legislatori – una tassazione più severa.
Un pasticcio all’italiana
E qui emerge il paradosso: entrambe le modalità – investire direttamente in criptovalute o farlo tramite ETF e azioni – mirano allo stesso obiettivo, ovvero trarre vantaggio dal mercato crypto.
E allora perché la tassazione risulta profondamente diversa?
Spostare gli investitori verso ETF o azioni è un vantaggio per le istituzioni finanziarie tradizionali, che traggono profitti significativi dalla vendita di questi strumenti attraverso commissioni e spese di gestione.
Al contrario, gli investimenti in criptovalute attraverso piattaforme DeFi (finanza decentralizzata) non prevedono la presenza di intermediari. Gli utenti possono acquistare, detenere e scambiare asset digitali direttamente nei loro wallet, eliminando le commissioni tipiche degli istituti finanziari. Questo rappresenta un risparmio significativo per gli investitori e un elemento di indipendenza economica che è alla base del movimento crypto.
Tuttavia, proprio questa caratteristica della DeFi – l’assenza di intermediari e la mancanza di controllo centralizzato – è sempre stata vista dai regolatori come una “falla” rispetto alle esigenze di supervisione e tracciabilità.
Il rischio per l’adozione crypto in Italia
La disparità fiscale potrebbe avere un impatto significativo anche sull’adozione delle criptovalute in Italia. Una tassazione al 33% rischia di disincentivare gli investitori retail, spingendoli verso prodotti più tradizionali e regolamentati, a scapito della detenzione diretta delle crypto.
Questo potrebbe rallentare la diffusione di Bitcoin e degli altri asset digitali come strumenti di investimento diretto. Penalizzare gli investimenti pone un freno all’innovazione, soprattutto considerando che il mercato crypto rappresenta uno dei settori finanziari più dinamici e in crescita.
Senza contare che la disparità di trattamento potrebbe incentivare gli utenti a spostare i propri capitali verso giurisdizioni più favorevoli dal punto di vista fiscale. Un sistema fiscale considerato oneroso potrebbe spingerli a trasferire i fondi su piattaforme estere. Paesi come Svizzera, Portogallo, o Malta offrono, senza andare troppo lontano, regimi fiscali più favorevoli.
Oppure potrebbero scegliere di rendersi invisibili ai sistemi regolamentati, continuando a operare in DeFi e minimizzando la loro esposizione alle tasse italiane.
Infine, una tassazione sproporzionata sulle criptovalute potrebbe scoraggiare non solo gli investitori individuali, ma anche le aziende del settore blockchain, danneggiando l’ecosistema tecnologico e innovativo del nostro Paese.
Per evitare questo scenario, sarebbe opportuno rivedere le politiche fiscali per renderle più eque e competitive a livello internazionale, favorendo un ambiente che incentivi sia l’adozione delle crypto sia la crescita dell’ecosistema blockchain in Italia.
L’alternativa? Rischiare di perdere il treno dell’innovazione, lasciando che altre nazioni raccolgano i frutti di un settore che sta ridisegnando il futuro dell’economia globale.
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