Il 65% delle operazioni di mining di Bitcoin viene effettuato ancora in Cina
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Secondo Batyr Hydyrov – CEO del fornitore di attrezzature per il mining di criptovalute Uminers – dal 55% al 65% delle operazioni di mining di Bitcoin nel mondo hanno ancora origini riconducibili alla Cina, per quanto riguarda i capitali, l’hardware o il know-how tecnico.
Le sue dichiarazioni arrivano mentre i tre maggiori produttori mondiali di macchine per il mining di Bitcoin — Bitmain, Canaan e MicroBT — stanno trasferendo le loro attività negli Stati Uniti per eludere i dazi punitivi imposti da Donald Trump.
Insieme, queste tre aziende cinesi producono il 99% dell’hardware globale per il mining, ovvero computer appositamente progettati, noti come circuiti integrati specifici per l’applicazione (ASIC), utilizzati per verificare le transazioni in Bitcoin.
Dopo il divieto delle attività di mining in Cina, imposto quattro anni fa, molte aziende hanno iniziato a ricollocare i propri impianti. Di conseguenza, la quota degli Stati Uniti sull’hashrate totale di Bitcoin — ovvero la potenza computazionale della rete — è passata dal 4% nel 2019 all’attuale 38%.

Batyr Hydyrov, in un’intervista con noi di CryptoNews ha dichiarato che, sebbene gran parte dell’hashrate cinese si sia spostato in Paesi come Russia e Stati Uniti, molti degli stessi “principali attori di mercato” continuano a influenzare il mining globale di Bitcoin.
Alla prova dei fatti, i miner con radici cinesi controllano ancora l’hashrate della rete Bitcoin, anche dopo aver trasferito le operazioni all’estero. Del resto non va dimenticato che, prima del divieto del 2021, la Cina rappresentava il 74% della fornitura globale di Bitcoin.
I miner cinesi espandono la capacità
Al momento non è chiaro quanta parte della precedente capacità di mining della Cina sia finita in altre nazioni. Hydyrov ha detto di “non poter fornire un numero esatto”, ma stima che tutti i clienti di Uminers che si trovano in Cina abbiano continuato le operazioni:
Tutti i nostri partner che avevano operazioni di mining stabili in Cina prima del 2021 hanno continuato a lavorare. E molti hanno persino aumentato la loro capacità tra il 30% e il 150%.
In Cina, il mining continua in zone meno sviluppate, “dove l’applicazione delle normative è debole e l’energia proviene da fonti rinnovabili”. Le autorità tendono a chiudere un occhio quando i miner offrono vantaggi aggiuntivi, come sistemi di recupero del calore a uso pubblico.
In tali regioni, le aziende minerarie possono collaborare con i governi provinciali fornendo energia termica recuperata in cambio della possibilità di restare scollegati dalla rete. Questi data center sono generalmente piccoli, tra 1 e 10 megawatt.
Le aziende più grandi hanno invece trasferito le operazioni all’estero o nei paesi limitrofi. Per esempio, BTC KZ ha spostato impianti minerari da Xinjiang a Ekibastuz, nel nord-est del Kazakistan. Più recentemente, i produttori di ASIC hanno iniziato a stabilirsi negli Stati Uniti.

- Bitmain, il maggiore produttore di hardware con una quota di mercato dell’82%, ha iniziato la produzione negli Stati Uniti nel dicembre 2024, un mese dopo la vittoria elettorale di Trump.
- MicroBT, secondo con il 15% del mercato, starebbe “attuando attivamente una strategia di localizzazione negli Stati Uniti per evitare l’impatto dei dazi”.
- Canaan (quota di mercato del 2,1%) ha avviato la produzione di prova negli Stati Uniti, anch’essa per evitare i dazi annunciati da Trump il 2 aprile.
Il dominio delle tre aziende cinesi è da tempo oggetto di dibattito, sollevando interrogativi sul potere di mercato e sul rischio di possibili interruzioni nel settore.
Il mining di Bitcoin come leva economica
Secondo un recente studio del Cambridge Centre for Alternative Finance (CCAF), il mercato del software specializzato che controlla e ottimizza il funzionamento dell’hardware di mining risulta più frammentato. Fornitori di firmware di terze parti, come Vnish (Russia), Braiins OS (Repubblica Ceca), LuxOS (Regno Unito) ed ePIC (USA), rappresentano oggi complessivamente il 38% della distribuzione globale. Inoltre, un numero crescente di aziende di mining (17,6%) preferisce sviluppare firmware personalizzati, adattati alle proprie esigenze operative specifiche.
Secondo gli esperti, comprendere il panorama e l’ampiezza della capacità mineraria cinese potrebbe aiutare a spiegare il “forte coinvolgimento” del presidente degli Stati Uniti nella più ampia battaglia per il controllo dell’hashrate di Bitcoin.
Negli ultimi mesi, Trump ha spinto per rendere Bitcoin un pilastro della strategia economica degli USA, presentando la principale criptovaluta come uno strumento utile a ridurre il debito pubblico americano, che ammonta a 36.000 miliardi di dollari.
Il presidente repubblicano ha proposto politiche a sostegno del mining nazionale, ricevendo anche il supporto della senatrice pro-Bitcoin Cynthia Lummis, che ha chiesto “la fine del trattamento fiscale ingiusto” nei confronti dei miner.
Gli Stati Uniti possono davvero sganciarsi dalla tecnologia cinese?
Alcuni analisti interpretano l’attenzione di Trump verso il Bitcoin come parte della rivalità economica in corso tra Stati Uniti e Cina. Ma è realistico pensare che gli USA possano raggiungere il dominio sull’hashrate senza fare affidamento sulla tecnologia cinese?
Non facilmente — e certamente non nel breve periodo” – ha detto Hydyrov. “Costruire strutture comparabili a Bitmain o MicroBT richiede non solo investimenti ingenti e competenze avanzate nella progettazione di chip, ma anche anni di ricerca, sviluppo e costruzione di una supply chain.”
La maggior parte dei grandi miner a livello globale, inclusi quelli statunitensi come Riot Platforms e Core Scientific, dipendono ancora dagli ASIC prodotti da aziende cinesi. Anche la gestione software e la risoluzione dei problemi nei data center spesso coinvolgono consulenti cinesi.
“La questione chiave è il capitale umano. Formare specialisti locali richiederà tempo. Sebbene gli Stati Uniti stiano avviando percorsi di formazione, il processo è ancora in fase iniziale. Ma raggiungere un’indipendenza assoluta… richiederà uno sforzo coordinato tra governo, industria e mondo accademico. La piena autosufficienza richiederà almeno tre anni”.
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